NEPAL e TIBET: ...da un altro "punto di vista"


Dopo "over the clouds", il Nepal e Tibet secondo il "punto di vista" di Mariella Terra, ospite del blog, che si presenta in poche righe:
"Appassionata lettrice, mi piace documentarmi su ciò che vedo nei viaggi. Credo che il viaggio rappresenti una valida opportunità di crescita e per questo credo che il viaggio sia prima di tutto quello in noi stessi."

Capita a volte di realizzare quel viaggio che si è immaginato da tempo, di visitare quei luoghi che avevano preso posto nella nostra mente creando particolari aspettative e suggestioni, magari dopo aver letto libri o visto dei film. Visitare il Tibet, la culla del buddhismo, il tetto del mondo, è stata un’esperienza singolare e autentica.









I vasti altipiani coronati da continue montagne, i monasteri colorati ma cupi, i villaggi sperduti e le tende dei nomadi così come le città ormai profondamente cinesi nella struttura ma anche nell’anima, si sono impressi nella memoria, sovrapponendosi a ciò che avevo immaginato, Alcune volte ciò che ho visto era esattamente come l’avevo nella mente, altre volte la realtà si è imposta con la sua concretezza.



La nostra strada per il Tibet passa attraverso il Nepal. L’arrivo nella mitica  Kathmandu è stato caratterizzato dal traffico caotico, dai continui colpi di clacson, dal via vai di bici, dai profumi di spezie, dall’incessante brulichio di persone indaffarate tra negozi, bancarelle, attività di ogni genere. Si respira però in questa città un’atmosfera di calma interiore. Sarà la presenza di un singolare sincretismo religioso grazie al quale templi buddisti e induisti, animisti e mussulmani si susseguono, senza mai ostacolarsi, anzi favorendo un rapporto con il divino molto umano, concreto fatto di offerte votive, di riti propiziatori, di benedizioni.



Anche attendere in un cortile al centro della città che la dea Bambina, la Kumari, reincarnazione della dea Kali, si affacci per qualche attimo, rappresenta il perpetuarsi di antichissime ma sempre vive tradizioni. Certo nulla sembra giustificare la tristezza che traspare da quegli occhi truccati che guardano intorno senza  soffermarsi su niente e nessuno in particolare.
Il paese è povero ma molto dignitoso,  la democrazia raggiunta recentemente garantisce una certa pluralità di informazioni. I giornali si leggono ancora nelle piazze, affissi su estese bacheche ma non manca sulle stesse piazze e nei vicoli dissestati la presenza della più moderna tecnologia.











La popolazione è giovane e ottimista rispetto al futuro di questo paese stretto tra India e Cina. La lunga e disastrata strada che sale da Kathmandu al  Tibet è di per sè un’esperienza:  risaie a perdita d’occhio lasciano il posto a dirupi verdissimi, a cascate d’acqua incessanti, ad una continua foresta attraversata da ponti sospesi, fino ad arrivare al vero e proprio confine. La parte nepalese è costituita da povere case, da una popolazione che vive prevalentemente sulla strada e che attraversa il confine alla ricerca di lavoro. Il veloce controllo dei passaporti, viene fatto attraverso una grata piccola e sporca e poi si è pronti a superare a piedi, portando le valigie a mano, il "Ponte dell’Amicizia" che ci consente di entrare in Tibet.






Pochi metri, controlli rigidi, due ore in avanti di fuso orario e si è proiettati in un altro mondo: in realtà la prima immagine che abbiamo del Tibet è quella di una città cinese. Nyalam si snoda lungo la strada che sale, disseminata per chilometri da file di camions, mostrando il tipico aspetto di una Cina affarista e pratica, poco disponibile e poco ospitale La particolarità  è il continuo incessante rumore delle cascate d’acqua che scendono tra casa e casa, invadono le strade, riempiono l’aria di un pulviscolo d’acqua che provoca un’umidità diffusa che invade i muri delle casa, i panni stesi in attesa perenne di asciugarsi e le strade bagnate e scivolose. Da adesso in poi sarà  continuo, incessante il controllo della polizia ogni volta che entriamo in un paese o visitiamo un monastero.




La strada sale tra buche, smottamenti e solo dopo otto ore vediamo intorno a noi i primi altopiani. L’altezza si fa sentire: bere molta acqua (la “Tibetan magic water”), una bevanda alla rodiola, camminare lentamente, sembrano gli unici rimedi.
La nostra meta, il primo Campo Base dell’Everest ci attende...quattro ore di una strada sterrata con una partenza in piena notte sono ripagate da una visione mozzafiato. La vetta del mondo è lì davanti noi, maestosa ma quasi a portata di mano. Siamo a 5200m e un piccolo accampamento ci attende per un meritato riposo: un tè al gelsomino, il pane locale e uova strapazzate sembrano ancora più buoni. Peccato per l’immondizia sparsa ovunque, bottiglie di plastica, bombole d’ossigeno usa e getta (sono simili alle nostre bombolette spray) devastano un luogo maestoso e solenne. Viene da pensare a come l’uomo riesca a distruggere qualsiasi cosa con la sua presenza.  Ci spiegano che da lì partono le spedizioni e che gli sherpa, popolazione nepalese, vanno avanti e indietro per rifornire gli altri campi base posti più in alto, conquistando e percorrendo a piedi e senza ossigeno quelle montagne tutti i giorni, terminati i monsoni, al seguito di spedizioni  per lo più occidentali costossime e tecnologiche.



Ma il vero Tibet si manifesta nella profonda e pervasiva religiosità. La si respira per la strade sterrate dei paesi, caratterizzati da case squadrate e basse, lungo i Kora che si percorrono intorno ai mille monasteri popolati da monaci vestiti di giallo ocra o rosso cupo. Ogni colore, ogni gesto rappresenta un aspetto diverso del buddhismo. Le statue del Buddha "presente", "passato" e "futuro" che troneggiano nei monasteri (talmente alti e maestosi da chiedersi come siano stati costruiti), le immagini degli dei guardiani, le enormi coppe di bronzo colme di burro di yak, di grano, di orzo, di vari oggetti, di denaro, l’odore di incenso bruciato su improvvisati bracieri o su porta incensi antichissimi stordiscono e  riempiono gli occhi.




La gente comune gira per le strade, anche della moderna Lhasa, roteando il Mani, gettandosi a terra in genuflessioni continue, estenuanti. Portano ai templi in offerta denaro in banconote particolari di piccolo taglio che infilano ovunque, dopo aver girato i grandi Mani posti all’ingresso in senso rigorosamente orario. Sembra che la loro vita siano determinata dalla fede: il nome dei bambini è scelto dai monaci, ogni momento della vita è scandito da un rito. Ad esempio, dopo la morte, il corpo è tagliato a pezzi è portato sulle alte montagne per consentire che possa reincarnarsi (lungo le montagne infatti si vedono disegnate delle scale ad indicare i luoghi di “sepoltura”).





Ma tutto ciò sembra essere vissuto senza gioia e senza pace interiore. Il buddhismo tibetano risente profondamente della dominazione cinese. Il governo di Pechino consente la pratica religiosa usandola come "instrumentum regni". I tibetani sono liberi di vivere la fede in maniera quasi maniacale, ossessiva ma non sono liberi di parlare del Dalai Lama, di parlare di politica. Sembrano non conoscere la libertà. Google è oscurato così come Facebook e la polizia in divisa o in borghese è ovunque. Le guide locali sono attentissime a non parlare di ciò che è proibito, praticamente tutto ciò che non è turistico o di ambito religioso.


Siamo gli unici occidentali quando di sera sotto il Potala, nella piazza enorme che testimonia la grandezza della Cina, assistiamo allo spettacolo di luci e acqua con il palazzo sullo sfondo. I cinesi ci chiedono da dove veniamo, quanti controlli abbiamo superato e si fotografano con noi. La visita del Potala è organizzatissima: orario di ingresso, d’uscita, divieto di foto. Troppo breve nel complesso. Le poche stanze visitabili di quell’immenso palazzo non trasmettono alcun senso di pace: gli stessi monaci sembrano burocrati spaesati e quasi fuori dal tempo.
Un’altra sorpresa ce la riservano i servizi igienici del Potala (del tutto simili a quelli del Museo o dei piccoli villaggi del Tibet intero): senza porte, il bagno è costituito da una scanalatura a terra lungo la quale turisti e gente locale si ritrovano vicini in un’assenza totale di privacy e di igiene. Impariamo da subito che sarà meglio servirsi delle soste lungo le strade deserte.
Lungo il viaggio abbiamo sperimentato la cucina tibetana: buona, saporita, non troppo speziata con piatti a base di carne di yak, yogurt e te al latte di yak, minestre e zuppe, ottime focacce. Nei piccoli locali dove ci siamo fermati, i nostri vicini di tavolo erano persone del luogo: le donne indossano nella vita quotidiana  abiti locali bellissimi (grembiuli colorati, cinte d’argento massiccio) con pietre preziose tra i capelli grandi come mele.
Il cammino continua verso gli altipiani, dove lo sguardo vaga dalle vette ai campi nomadi, dalle piccole costruzioni votive alle pietre che ricordano chi è passato per di là. Migliaia di colorate e sbiadite bandierine  sventolano al sole, che fa capolino dalle nuvole  così basse, così vicine.


Il viaggio volge al termine. Quante riflessioni si accalcano nella mente... tanti oggetti sono tornati nelle nostre valigie nel tentativo di avere a portata di mano ancora quel mondo misterioso.
Il suono della campana tibetana (singing bowl),  lo ritrovo a casa, nelle lezioni di yoga...e il mio pensiero si rimette in viaggio...


(Testo di Mariella Terra - Foto di Federico Sergio)




Nessun commento:

Posta un commento